Assistenza Domiciliare Integrata e R.S.A.: Servizi sociosanitari per gli anziani del domani

 Negli ultimi 150 anni a causa del calo del tasso di natalità e dell’aumento della longevità è aumentata, in quasi tutti i Paesi  Europei, la fascia di popolazione con età superiore ai 65 anni, destinata ad aumentare ancor di più nei prossimi decenni. Di contro la fascia di giovani con età inferiore ai 15 anni diminuirà in maniera significativa con conseguenze ben immaginabili per la qualità della vita.

Tale fenomeno accompagnato ad uno stato assistenziale fino a poco tempo fa  totalmente assente, ha prodotto l’evolversi di due processi sociali, che ancora oggi camminano di pari passo:

  • la deportazione assistenziale dell’anziano dal suo ambiente ad altri che gli sono totalmente sconosciuti ed estranei con il conseguenziale allontanamento da amici e parenti.
  • Inefficiente uso delle risorse

 Nella nostra nazione e soprattutto al sud, il senso della famiglia è stato sempre molto forte e un valido apporto fino ad oggi lo si è ottenuto proprio da essa. Ma la prima ad avere bisogno di una serie di aiuti e di sostegni per  potersi occupare degli anziani è proprio la famiglia.

Fortunatamente, negli ultimi tempi sembra che per il Governo e le Regioni questo sia stato uno dei problemi che si è cercato di risolvere con una serie di provvedimenti legislativi ed economici l’ultimo dei quali la L.328/2000 e la cui operatività è attesissima da parte soprattutto delle famiglie e associazioni per dar vita al nuovo Welfare Comunity. Se si considera, inoltre, che tra qualche anno, in virtù dell’analisi demografica attuale, la composizione della famiglia si andrà modificando diventando essa stessa anziana venendo così meno quella che fino ad ora è stata la principale, se non l’unica, rete di sostegno per molti ammalati, ci si rende immediatamente conto che la programmazione di una nuova assistenza è quanto mai emergente.

L’approccio sociale alla salute e le nuove strategie di sanità pubblica vedono privilegiato, rispetto agli interventi previsti, quello dell’assistenza territoriale e soprattutto quello domiciliare.

Essi sono infatti, ritenuti la migliore garanzia di un buon utilizzo delle risorse e di una riduzione di ricoveri impropri per un migliore utilizzo anche degli ospedali che erogheranno cure solo durante la fase acuta.

 L’A.D.I.

L’Assistenza Domiciliare Integrata (A.D.I.) intesa come una serie di prestazioni sanitarie e socio-assistenziali, effettuate a domicilio da parte di persone specializzate, ha come sue finalità principali:

  • la permanenza dell’anziano nel proprio contesto familiare e sociale
  • l’individuazione dei programmi personalizzati di intervento socio-sanitario
  • la salvaguardia del nucleo familiare, ostacolando il processo di emarginazione degli anziani handicappati
  • la prevenzione o superamento dell’isolamento psicologico dell’anziano, attraverso il sostegno necessario a favorire la permanenza nel suo ambiente di vita
  • la prevenzione di ricoveri in istituti
  • la prevenzione di forme improprie di prescrizioni e di ospedalizzazioni.

In alcuni casi essa è già stata avviata ma trattandosi di esperienze isolate ed ancora in fase sperimentale esistono molte differenze tra le realtà presenti sul territorio.

Essendo, comunque, il servizio più richiesto ed obiettivamente il luogo di prevenzione, cura e riabilitazione più indicato, occorrerà attivarsi programmando le risposte in base ai bisogni sociosanitari emergenti, ed assicurando percorsi di attivazione rapidi soprattutto nelle fasi di post acuzie attraverso modalità procedurali ed organizzative ben definite.

Utile potrebbe essere l’attivazione di un Servizio Centrale Unico che possa programmare e delineare linee guida ai vari Servizi Centrali a livello di distretto che dovrebbero garantire una valutazione multidimensionale in grado poi di indirizzare il paziente verso il programma assistenziale che meglio risponde alle sue necessità in quel momento. Essendo poi il distretto individuato quale  punto di accesso alla rete dei servizi sociosanitari, dovrà essere garantita una rete di servizi in grado di interfacciarsi in maniera dinamica tra di loro ivi compresi i Presidi Ospedalieri che all’atto delle dimissioni del paziente dovrebbero darne immediatamente comunicazione al Servizio Centrale per mettere in moto il programma assistenziale successivo.

Tali obiettivi rientranti nell’ottica dell’Integrazione Socio Sanitaria prevista dall’ultimo P.S.N. e dal Decreto Legislativo 229/99, avranno comunque possibilità di successo se verranno rispettati  i principi necessari alla sua stessa realizzazione e cioè che essa venga attuata a livello istituzionale, gestionale e professionale.

R.S.A.

 Il problema di strutture “protette” prende l’avvio dall’entrata in vigore della Legge finanziaria 67/88 (art. 20). L’anno successivo viene approvato il P.O.A. (Progetto Obiettivo Anziani) dove tali strutture vengono denominate Residenze Sanitarie Assistenziali(R.S.A.) ed i cui criteri di progettazione vengono delineati dal DPCM del 22.12.89 ulteriormente approfonditi nel 1997.

Esse possono essere definite quali strutture per la lungodegenza, dove si attivano processi di riabilitazione e di riattivazione psico-sociale di persone per la maggior parte molto anziane, con elevati livelli di dipendenza psichica e fisica con alle spalle situazione economiche e familiari non sempre facili.

Eppure a tutt’oggi le esperienze presenti sul territorio nazionale sono poche e i pochi modelli esistenti non sono validati così come non sono uniformi i livelli di assistenza.

Al di là del fatto che non esiste una visione positiva di tali strutture sia da parte degli anziani sia da parte delle famiglie, permangono incertezze anche a livello istituzionale soprattutto per quanto riguarda la quota di finanziamento da parte del F.S.N., la riconversione di alcune strutture in R.S.A., il modello gestionale ed organizzativo da scegliere quale accreditabile.

Eppure, nonostante il ricovero in R.S.A. sia un servizio meno richiesto rispetto a quello domiciliare, la questione della disabilità, legata proporzionalmente alla questione  dell’invecchiamento della popolazione, porta inevitabilmente le famiglie a richiedere anche tale servizio. E’ chiaro che tali strutture per assolvere a pieno le loro funzioni dovranno adottare una serie di misure non solo tecnico strutturali ma soprattutto formative nei confronti dei loro operatori affinché si affermi una cultura assistenziale centrata sui bisogni dell’anziano e della sua famiglia. Anche qui come nell’A.D.I., necessita una valutazione multidimensionale che preveda un piano di cura personalizzato da concordare insieme al paziente stesso e in considerazione della rete di supporti a lui più vicina.

Occorrerà inoltre individuare modelli di verifica di qualità con una serie di indicatori che ci possano far misurare in modo adeguato la qualità dell’assistenza erogata in rapporto alla struttura, alle prestazioni e al risultato raggiunto.

Il Presidente A.I.MA. (Regione Campania)

Dr.ssa Caterina Musella

Pubblicato su Il Denaro, 2001

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Sociologi ed Integrazione sociosanitaria

Con l’avvio del nuovo P.S.N. che prevede una forte integrazione sociosanitaria tra i Comuni e le Aziende Sanitarie, si è apre, almeno teoricamente, un nuovo sbocco professionale per una serie di discipline tra le quali quella in Sociologia.

Infatti, dopo la L. 833/78 che già aveva come obiettivo l’integrazione sociosanitaria, molti sociologi hanno prestato la loro opera all’interno del S.S.N. sperando di concretizzare le proprie abilità ad ampio raggio su tutto ciò che concerne un’efficace politica di programmazione e pianificazione dei servizi sociosanitari ma che purtroppo, per una serie di motivi, non sempre si è verificato. Il primo motivo è che fin dall’inizio, nella maggior parte dei casi si è riscontrata una relazione sbilanciata tra l’aspetto sociale e quello sanitario a vantaggio di questo rispetto al primo. Inoltre, la relazione prevista tra sanitario e sociale è stata solo prevista a livello formale negli articoli di alcuni piani mancando indicazioni chiare di lavoro per gli operatori.

A distanza di più di 20 anni si prospetta oggi, per il Sociologo, all’interno del S.S.N., l’opportunità di svolgere il proprio ruolo mettendo in campo le acquisite competenze tecnicoscientifiche che oggi tra l’altro, sono previste specificamente dal primo decreto attuativo del Ministero della Sanità.

Infatti all’articolo 3-nonies comma 1 si cita testualmente che “l’assistenza socio sanitaria ha caratteristiche interprofessionali nelle seguenti fasi: valutazione interdisciplinare del bisogno, elaborazione dei piani di lavoro, erogazione dell’assistenza, verifica e valutazione dell’efficacia dell’intervento”.

All’articolo 19-ter, inoltre, si cita: “ Le Regioni, attraverso il sistema informativo regionale, rilevano i dati relativi alle misure e agli indicatori qualitativi e quantitativi previsti dal Piano regionale in attuazione del Piano sanitari nazionale per la verifica dei livelli di assistenza effettivamente assicurati in rapporto a quelli previsti e ai relativi livelli di spesa. Esse acquisiscono dati sui costi, rendimenti e risultati della gestione economica delle unità sanitarie locali e aziende ospedaliere…..”

Orbene, all’interno del percorso accademico del Sociologo, sono previsti corsi mirati soprattutto ad una formazione metodologica necessaria per la ricerca sociosanitaria, progetti sperimentali valutazione ed interpretazione dei risultati ottenuti sulla base di indicatori specifici nonché studi concernenti la raccolta di informazione sullo stato di salute, sugli atteggiamenti, comportamenti e bisogni della popolazione,  raccolta dati in generale e quindi anche della spesa ed ulteriore elaborazione.

Da ciò si desume che all’interno del S.S.N., uno degli sbocchi principali per tale figura professionale, tipica delle società più avanzate, è la ricerca che vuol dire quindi occuparsi di pianificazione territoriale, progettazione organizzativa e aziendale, statistica sociale, indagini sociali, informazione linee d’indirizzo e orientamento per l’ assistenza alle fasce deboli.

Nell’area anglosassone, già negli anni ’60, l’interesse della Sociologia per gli aspetti legati al campo della malattia e della salute, ha fatto si che nascesse una vera propria disciplina specializzata in tal senso e detta “Sociologia medica”.

Non vogliamo riproporre lo stesso modello nel nostro Paese anche perché ci troveremo di fronte a profonde difficoltà culturali e concettuali nonché ad oggettive resistenze ad un totale nuovo approccio operativo. Infatti, come sostiene Pier Paolo Donati nel suo libro “Manuale di Sociologia sanitaria” la sociologia estera e quella che se ne fa interprete in Italia, sono ancora in buona misura subordinate al “complesso sanitario medico”.

Ciò che oggi il sociologo chiede, non è quello di inserirsi nel processo di medicalizzazione, che lo vedrebbe lavorare all’interno dei servizi sanitari per la medicina, bensì quello di proporre una Sociologia Sanitaria improntata sul concetto di salute inteso come “fatto sociale” (che deriva dalle modalità con cui interagiscono tra di loro i sistemi sociali ed il mondo vitale) prima ancora che biologico e psicologico.

Ciò implica l’attuazione di interventi e servizi intesi come raccordo fra mondi vitali e istituzioni di servizio capaci di rispondere ai bisogni umani. Quindi salute intesa come relazione sociale salvaguardata dalla compartecipazione attiva di diversi attori che operino in rete attraverso la costituzione di servizi complessi ed interprofessionali.

Queste nuove prospettive, oltre che dal PSN e dalla Legge Delega, sono delineate dal primo schema di decreto attuativo del Ministero della Sanità che tende a legittimare le professionalità sociosanitarie sino ad oggi emarginate, prevedendo all’interno del S.S.N. un’Area Socio Sanitaria con l’individuazione di profili professionali della stessa Area. Questo ultimo decreto verrà attuato dal Ministero della Sanità di concerto con il Ministero dell’Università e per la Solidarietà Sociale.

Nella speranza che ciò possa concretarsi quanto prima, occorre puntualizzare che affinché l’integrazione di cui si parla possa realmente avvenire bisogna tenere ben differenziati gli aspetti sanitari da quelli sociali onde evitare che questi vengano fagocitati nuovamente dai primi. Inoltre, altro equivoco da chiarire è il concetto che identifica molto spesso l’aspetto sociale con quello assistenziale che prevede prestazioni unicamente ad un utenza problema senza tenere conto che molto spesso vi è una fascia di popolazione in condizioni di disagio fisico e  socio-economico ma che non rientra ancora nella fascia dei grandi emarginati.  Se tale concetto non verrà chiarito definitivamente verranno compromesse sia le prestazioni di tipo sociale che quelle di tipo sanitario.

Altro argomento da non sottovalutare è quello relativo alla formazione e all’isolamento del Sociologo nella dinamica delle relazioni interprofessionali.

Caterina Musella  (A.S.L. Napoli 1)

Pubblicato su Sole 24 Ore, 15-21 Giugno 2001